La scienza e “l’ombra di Dio”

Carlo Gentili

1. Sui processi psicologici che presiedono alla creazione dell’idea di Dio Nietzsche si sofferma per la prima volta in Aurora. Questa creazione consiste nell’illegittima elevazione a valore universale e assoluto di ciò che resta una visione soggettiva. «Come può essere sentita quale rivelazione [Offenbarung] la propria opinione [Meinung] sulle cose?», si chiede l’aforisma 62 (Dell’origine delle religioni). La risposta sta nella scissione che si apre tra la consapevolezza del proprio limite e la grandezza dell’idea che ci si scopre pur tuttavia capaci di pensare. Questo «nuovo pensiero», questa «grande ipotesi personale» che spiega il mondo e l’esistenza entra «così violentemente (gewaltig)» nella coscienza dell’uomo «che egli non osa sentirsi creatore di una tale beatitudine ed attribuisce al suo Dio la causa di questa ed ancora la causa della causa di quel nuovo pensiero, inteso come rivelazione di Dio stesso» (eKGWB/M-62).

2. Questo processo mediante il quale «si innalza sopra se stessi la propria creazione [Erzeugniss]» ci obbliga a considerarla a noi estranea e suscitata ab alto: ci obbliga quindi, innanzitutto, a prescindere dal nostro «proprio valore»; ossia, a mettere da parte quella consapevolezza del limite che sta all’origine della creazione stessa. Proiettata davanti a noi, quella semplice opinione si trova rafforzata: «se ne cancella il carattere ipotetico, la si sottrae alla critica, anzi al dubbio, la si consacra». Grazie al «pensiero di Dio» noi ci sottraiamo quindi alla nostra intrinseca finitezza (eKGWB/M-62).

3. Quel che qui è in gioco è quel sentimento della potenza che costituirà il tema fondamentale dell’ultima riflessione nietzschiana. In un frammento della primavera 1888 Nietzsche definirà questo processo creativo una «logica psicologica» (eKGWB/NF-1888,14[124])[1].

4. Questa «logica psicologica» è la stessa che sta a fondamento della soggettività trascendentale su cui poggia, a giudizio di Nietzsche, l’edificio della scienza moderna. I “fatti” che essa prende a proprio oggetto non sono che il risultato del soggetto che li osserva. A questa conclusione Nietzsche era giunto già in Il viandante e la sua ombra, precisamente nell’aforisma 11: La libertà del volere e l’isolamento dei fatti. Un «fatto» – egli spiega – è un «gruppo di fenomeni» preso «come unità» [als Eins]; ma questo non è che il risultato della «nostra abituale osservazione inesatta» che isola i presunti “fatti” come se essi fossero intervallati da «spazi intermedi vuoti». Il presupposto di questo errore è «la credenza [Glaube] nella libertà del volere», che presume «che ogni singola azione sia isolata e indivisibile». Poiché la libertà del volere è l’attributo fondamentale della sovranità e dell’unità del soggetto, questi riflette la propria pretesa sovranità e unità sull’oggetto che gli sta di fronte. Quegli elementi comuni che il soggetto pretende di individuare nel gruppo di fenomeni che vengono – in conseguenza di questa comunione – designati come “fatto”, non sono in realtà che il riflesso dell’unità del soggetto: «parliamo di caratteri uguali, di fatti uguali: non ci sono né questi né quelli». Tanto il soggetto che osserva quanto i “fatti” devono essere compresi all’interno del «nostro agire e conoscere», che si presenta come «un flusso costante» [ein beständiger Fluss] (eKGWB/WS-11). La fissazione dei fatti così come del soggetto – con la conseguente e speculare attribuzione del carattere oggettivo ai primi, di quello trascendentale al secondo – prescinde fallacemente da questo flusso costante.

5. Michael S. Green ha rilevato l’affinità dell’impostazione nietzschiana con il trascendentalismo kantiano: dal caos delle sensazioni viene costruito un “mondo” grazie all’applicazione di categorie: «absolute space and time, self-identical substance, and causality»; con la rimarchevole eccezione, tuttavia, «that the application of these categories of being occurs within becoming rather than through a transcendental self»[2]. Green si ritrova, così, vicino all’analisi di Volker Gerhardt, che pone anch’egli la concezione nietzschiana sotto il segno kantiano delle «“condizioni trascendentali”» della conoscenza[3]. Tuttavia, lo spostamento del luogo d’applicazione del trascendentalismo dal soggetto al divenire non è privo di conseguenze decisive. Ed è ragionevole supporre che proprio queste conseguenze fossero nel mirino di Nietzsche. È qui che, secondo Gerhardt, entra in gioco la questione di Dio. Che «anche il discorso di Dio perda il suo senso» è la conseguenza del fatto che non esistono «una verità», «un essere», «una realtà»: «Non esiste in generale nulla che noi possiamo riconoscere indipendentemente dalle nostre proprie condizioni d’esistenza [Daseinsbedingungen]». La celeberrima sentenza di Nietzsche – Gott ist todt! – ha dunque il suo fondamento «nella visione della finitezza della conoscenza umana»[4].

6. Torniamo ora all’aforisma 62 di Aurora. Qui Nietzsche aveva posto un’ulteriore condizione alla trasformazione dell’opinione in rivelazione: il fatto che, «già precedentemente [vorher schon]», l’uomo «credesse a rivelazioni» (eKGWB/M-62). Ciò che la scienza moderna ha fatto è sbarazzarci di questa condizione, ma non della logica psicologica che ad essa presiede. Questa logica continua ad agire nel conferire verità a quelle creazioni che la scienza propone come oggettive e che restano, in realtà, opinioni soggettive. L’apologo dell’uomo folle (il celebre aforisma 125 de La gaia scienza) si rivolge per l’appunto a coloro che continuano a coltivare opinioni che pretendono alla verità oggettiva. Il grido dell’uomo folle – «Cerco Dio! Cerco Dio!» – suscita le risa della folla nella piazza del mercato perché «proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio». Si tratta di coloro che, sbarazzatisi del presupposto della rivelazione, non si rendono tuttavia conto che, in virtù di questa liberazione, l’intero edificio della verità scientifica è crollato. Le domande che l’uomo folle pone loro: «Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?» (eKGWB/FW-125) ecc. – mettono la scienza ateistica di fronte a quelle conseguenze estreme della morte o dell’uccisione di Dio che essa non riesce a vedere perché ancora motivata dalla medesima “logica psicologica” che aveva prodotto l’ipotesi divina.

7. Se, dunque, la scienza ci ha liberato dalla presenza di Dio, non ci ha però liberato dalla sua ombra. Il permanere di quest’ombra nel modo di operare della scienza è il contesto autentico nel quale dev’essere collocato il tema nietzschiano della “morte di Dio”. Troverà così soluzione il problema che molti critici di Nietzsche hanno sollevato[5], giudicando eccessivo il suo accanimento contro un avversario – il Cristianesimo – che nella sua epoca, sotto i colpi della scienza positivista, si trovava a navigare in acque forse più cattive di quelle in cui si trova ai nostri giorni. Il bersaglio di Nietzsche non è tanto (o soltanto) il Cristianesimo in quanto tale, bensì la sua tacita sopravvivenza nell’atteggiamento fideistico della scienza. E le atmosfere angosciose, da cui l’aforisma 125 è pervaso, non sono motivate dalla struggente nostalgia per l’antico avversario abbattuto – una sorta di smarrimento del credente che ha perduto la fede ma rimpiange le sicurezze che essa gli offriva – bensì dalla consapevolezza della difficoltà a procedere alla rimozione definitiva.

8. Ricostruire questo contesto assume un’importanza decisiva di fronte alla storia dell’interpretazione filosofica dell’aforisma 125. Nell’atteggiamento prevalente presso i suoi interpreti, il tema della morte di Dio è stato espunto dal contesto rappresentato dagli aforismi di argomento affine de La gaia scienza ed è stato trattato come soggetto autonomo.

9. Per un verso, si è ridotto il senso dell’apologo esclusivamente alla sua dimensione filosofica. Così avviene nel celebre commento di Martin Heidegger. Pur riportando per intero l’aforisma 125, nonché brani di altri aforismi de La gaia scienza, egli non ci fornisce un commento testuale, ma solo un’amplificazione delle implicazioni filosofiche contenute nella conclamata circostanza che Dio sia morto. Proclamare la morte di Dio equivale per Heidegger al rovesciamento del platonismo, dato che, in Nietzsche, le espressioni «“Dio”» e «“Dio cristiano”» sono usate «per indicare il mondo sovrasensibile in generale». Il nome “Dio” indica, quindi, quel «mondo delle idee e degli ideali» che, a partire da Platone, vale «come il mondo vero, l’autenticamente reale» al quale si contrappone il mondo sensibile. Che Nietzsche porti alla fine la metafisica è possibile solo in quanto essa è per lui «la filosofia occidentale intesa come platonismo»[6].

10. Per l’altro verso, anche quando – come nel caso di Karl Löwith – si è criticata l’interpretazione di Heidegger, lo si è fatto con l’intenzione di ripristinare il presunto senso originario dell’apologo; che consisterebbe, piuttosto che nel compiersi del destino della filosofia occidentale, in una presa di posizione risolutamente anticristiana. Il timore di Löwith è che l’importanza di questa presa di posizione finisca col dileguarsi nell’interpretazione filosofica di Heidegger. Per comprendere fino a che punto la morte di Dio proclamata da Nietzsche rappresenti un «“punto di svolta” nella storia dell’ateismo moderno», essa dev’essere compresa come una «dottrina a sé stante». Se, per Heidegger, il Cristianesimo non è che una conseguenza del nichilismo che possiede, fin dalle radici, la ragione occidentale e dunque, per comprendere la posizione di Nietzsche, essa dev’essere ricondotta a queste radici, per Löwith la morte di Dio è cosa che riguarda, in primo luogo e direttamente, il Cristianesimo stesso. Egli si spinge così a sostenere la tesi, che certo pecca di eccessivo radicalismo, secondo cui «per Nietzsche il nichilismo è una conseguenza del fatto che noi abbiamo ucciso il dio cristiano». Tesi con la quale viene ripristinato il primato dell’evento religioso (sia pure considerato nel suo significato ateistico) sulla speculazione filosofica. L’aforisma 125 diviene così, per Löwith, il luogo nel quale si pongono le premesse dello scontro che culmina nello Zarathustra [7], il libro che è, «dal principio alla fine, un vangelo anticristiano» e in cui il superuomo incarna «l’opposizione al dio-uomo Cristo»[8].

11. Non v’è dubbio che questa ipotesi possa essere legittimamente sostenuta. Ciò non esime tuttavia dalla ricostruzione del contesto originario in cui il pensiero della morte di Dio trova la sua collocazione. Questo contesto è stabilito con precisione dagli aforismi 108 (Nuove battaglie) e 109 (Stiamo all’erta!) de La gaia scienza. Nel primo aforisma – in cui, tra l’altro, l’espressione «Dio è morto» compare per la prima volta in un’opera pubblicata[9] – si narra la leggenda secondo la quale l’ombra di Buddha sarebbe comparsa, dopo la morte, in una caverna. La stessa cosa è da attendersi dopo la morte di Dio: «Stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra». Già la citazione della caverna – con il suo implicito riferimento al mito narrato nel VII libro della Repubblica di Platone – assegna l’aforisma al contesto tematico della conoscenza[10]. Ma a questo contesto rimanda il senso, apparentemente inespresso, della conclusione nietzschiana: «E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra [sc. di Dio]» (eKGWB/FW-108). Di manifestare questo senso si incarica l’aforisma successivo (109), il cui argomento si sposta sull’interpretazione scientifica della natura. Dato che non possiamo definire con precisione che cosa sia «l’organico» – e non possiamo, per conseguenza, definire il mondo «un essere vivente» – così dobbiamo guardarci [Hüten wir uns] «dal credere che l’universo sia una macchina: non è certo costruito per un fine: gli rendiamo un onore troppo alto con la parola “macchina”». Essendo privo di scopo, «il carattere complessivo del mondo» non può essere che «caos per tutta l’eternità»: «un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane» (eKGWB/FW-109). Si potrebbe osservare, en passant, come questa spiegazione non rappresenti, ancora una volta, che la radicalizzazione di un tema kantiano: per la precisione, la coordinazione tra giudizio estetico e giudizio teleologico della terza Critica. Nietzsche va tuttavia oltre l’intento kantiano – pur limitandosi, in realtà, a trarne le conseguenze estreme – denunciando l’antropomorfismo dell’interpretazione finalistica. Dobbiamo infatti altresì guardarci [Hüten wir uns] dal «biasimare o lodare il tutto [das All]», e cioè dall’attribuirgli «assenza di sensibilità e di ragione, ovvero il loro opposto: l’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuol diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo!». Esso non conosce pertanto neppure delle leggi: «Guardiamoci [hüten wir uns] dal dire che esistono leggi di natura». Ed è, questa, una conclusione alla quale il Kant della terza Critica avrebbe avuto, tutto sommato, ben poco da obiettare. Ma, se non esistono leggi, non possiamo d’altro canto neppure supporre che l’universo sia retto dal caso, «perché soltanto accanto ad un mondo di scopi la parola “caso” ha un senso». Il significato di questo “oltrepassamento kantiano di Kant” si raccoglie dunque nel drastico rifiuto della possibilità stessa di ogni ipotesi esplicativa. Se anche l’assenza di scopi, in quanto serve pur sempre lo scopo della spiegazione, è omologata ad uno scopo, bandire definitivamente ogni finalità dalla natura significherà considerare quest’ultima nella sua indipendenza da quel principio supremo che è posto a fondamento di tutti gli scopi, e nel quale l’uomo ha divinizzato la propria soggettività. Significa, cioè, cacciare Dio dalla sua ultima caverna e vincere le nuove battaglie. «Quando sarà – si chiede Nietzsche a conclusione dell’aforisma – che tutte queste ombre di Dio [alle diese Schatten Gottes] non ci offuscheranno più?». Vale a dire, quando sarà che quel principio supremo e ogni spiegazione che esso rende possibile – ossia il trascendente e il trascendentale – saranno tolti di mezzo? «quando avremo del tutto sdivinizzato [entgöttlicht] la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare [vernatürlichen] noi uomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamente redenta [neu erlösten]!» (eKGWB/FW-109).

12. Ciò avverrà – è il senso della risposta implicita – quando avremo appreso a considerare la natura estranea all’uomo, ossia a quel principio della verità scientifica che ha in Dio il suo fondamento ultimo. Quando, infine, considereremo la verità nient’altro che come la nostra prospettiva.

13. Il tema del vincolo tra verità scientifica e fede viene ripreso da Nietzsche negli aforismi del V libro de La gaia scienza. In particolare, esso costituisce l’argomento dell’af. 344 (In che senso anche noi siamo ancora devoti) (il secondo del V libro), che inizia con la constatazione che, nella scienza, le «convinzioni [Ueberzeugungen]» o non hanno diritto di esistere, oppure lo hanno ma soltanto in due modi: o quando vengano abbassate «alla modestia di una ipotesi» (col che esse cessano tuttavia di essere per l’appunto delle convinzioni, ossia qualcosa della cui certezza si è convinti); oppure quando la pluralità delle convinzioni si riduca ad una soltanto, «invero così imperiosa e incondizionata da sacrificare a se stessa tutte le altre». È questo il presupposto che consente alla scienza di avere il suo inizio. Ma quella convinzione che ha eliminato tutte le altre merita ormai l’appellativo di «fede [Glaube]»: «Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza “scevra di presupposti” [voraussetzungslose]». Questo presupposto di base, questa sorta di pre-condizione che consente alla scienza di edificarsi, è l’istanza veritativa. Occorre cioè, prima di ogni altra cosa, non solo che alla domanda «se sia necessaria la verità [ob Wahrheit noth thue]» sia stata data risposta affermativa ma, ancor più, che questa risposta sia stata data «in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che “niente è più necessario della verità, e che in rapporto ad essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano” (eKGWB/FW-344).

14. Richiamando implicitamente l’antica sentenza di Gorgia (B 23 D.K.), Nietzsche si chiede se questa «volontà di verità» non sia che «la volontà di non lasciarsi ingannare» e «la volontà di non ingannare». E, all’unisono con Gorgia, si chiede ancora: «Ma perché non ingannare? Ma perché non lasciarsi ingannare?». Poiché non si può rispondere a priori alla domanda se, nell’interesse dell’esistenza, risulti più utile ingannare e lasciarsi ingannare piuttosto che il contrario, Nietzsche ne conclude che la volontà di non ingannare e di non lasciarsi ingannare significa, originariamente, che «“io non voglio ingannare, neppure me stesso”: econ ciò siamo sul terreno della morale». La scienza rivela, con ciò, di affondare le proprie radici nella morale, e il tratto che accomuna entrambe consiste nel presupporre un altro mondo che viene posto come vero a discapito di quel nostro mondo – «della vita, della natura e della storia» – nel quale non si può affermare a priori se torni più utile la verità o la non-verità, l’ingannare o il non ingannare. L’esistenza di questo mondo è l’oggetto di quella «fede metafisica» su cui riposa «la nostra fede nella scienza»; quella fede per cui «anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici [wir Gottlosen und Antimetaphysiker], continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina…» (eKGWB/FW-344). Non vi è dunque in Europa, a parere di Nietzsche, una scienza che non possa dirsi «“scienza cristiana”»[11].

15. D’altro canto, nell’indicare questa continuità tra scienza e fede, nel nome del loro comune fondarsi sul concetto platonico-cristiano di verità, Nietzsche non si pone un problema esclusivamente teorico. E, neppure, la sua critica può essere ridotta ad un semplice capitolo nello sviluppo della sua polemica anticristiana. Piuttosto, Nietzsche cerca di orientarsi nel panorama della ricerca scientifica – per lo più tedesca – del suo tempo. In fondo, ciò che egli rimprovera alla scienza tedesca non è nulla di diverso da ciò che, nell’Anticristo, egli rimprovererà alla filosofia tedesca: di essere, cioè, «una scaltrita teologia» (eKGWB/AC-10).

16. In questo quadro va compresa la vicenda della lettura del libro di Julius R. von Mayer, Die Mechanik der Wärme che Nietzsche, su sollecitazione di Köselitz, aveva letto (forse solo parzialmente) nella primavera del 1882[12]. Il libro, uscito nel 1867, fu letto da Nietzsche nella seconda edizione del 1874. Fu Köselitz stesso a spedirlo a Nietzsche, insieme ad un altro saggio di Mayer, Über Auslösung, pubblicato nel 1876. Sembra sia proprio Köselitz a spingere Nietzsche ad interessarsi alle tesi scientifiche di Mayer. Tant’è che, in una lettera a lui spedita da Genova il 10 aprile 1881, dopo che già l’amico l’aveva sollecitato alla lettura, Nietzsche manifesta la sua gioia per il fatto che «il libro per il quale provo un crescente appetito oggi sarà sicuramente nelle mie mani»; e si spinge fino a celebrare, nel comune interesse per gli argomenti che (Nietzsche suppone) vengono trattati nel libro, il «segno che abbiamo in comune molte, molte cose buone, più di quante riusciremmo a dire a parole» (eKGWB/BVN-1881,101). Pochi giorni dopo, il 16 aprile, in un’altra lettera a Köselitz, egli si lascia andare ad un giudizio addirittura entusiastico su un libro che, probabilmente, non ha ancora letto[13]: «In libri stupendi, semplici e radiosi [fröhlichen] come quello di Mayer si può udire l’armonia delle sfere: una musica creata soltanto per l’uomo di scienza» (eKGWB/BVN-1881,103). Fatto sta che, a questo entusiasmo, segue quasi un anno intero di silenzio. Soltanto il 20 marzo 1882, da Genova, Nietzsche comunica a Köselitz di aver letto «un po’ di R. Mayer [ich las in R<obert> Mayer]», ma l’impressione ricevuta non reca più traccia d’entusiasmo: «Amico, è un grande specialista – e nulla di più». La sua presunta «logica ferrea» è ridimensionata a «semplice cocciutaggine» (eKGWB/BVN-1882,213). In linea con le riflessioni de La gaia scienza – in cui, come avviene nell’aforisma 110 (Origine della conoscenza), si giudicano errori intellettuali, e cioè «erronei articoli di fede [Glaubenssätze]», le supposizioni «che esistano cose durevoli, che esistano cose uguali, che esistano cose, materie [Stoffe], corpi» (eKGWB/FW-110) – Nietzsche contesta a Mayer di conservare ancora quel «pregiudizio» della «“materia [Stoff]”» che già Boscovich[14] e, ancor prima, Copernico avevano demolito. Definire la forza di gravità «una “proprietà della materia”» è illegittimo semplicemente «perché non esiste materia»: quel che esiste è soltanto l’energia[15]. Il presupposto dell’esistenza della materia – e cioè di una sostanza persistente – appare evidentemente a Nietzsche un erroneo articolo di fede: insomma, un pregiudizio teologico. E così «anche per Mayer, sullo sfondo, accanto al moto stesso vi è una seconda forza, il primum mobile, il buon Dio [den lieben Gott]. Egli ne ha anche assoluto bisogno» (eKGWB/BVN-1882,213).

17. Ora, è certamente possibile che questa osservazione sia stata suggerita a Nietzsche dallo stesso Köselitz (del tutto involontariamente, del resto, visto il modo in cui egli si rammaricherà, più tardi, della cattiva accoglienza nietzschiana delle tesi di Mayer[16]) il quale, presentandogli il libro in una lettera del 10 febbraio 1881, ne aveva descritto l’autore come «un uomo del tutto risoluto, di poche parole e ricco di idee, che rifiuta tutto quel che non è scientifico (eccetto Domineddio) [nur den Herrgott nicht]» (KGB, III/2, 138). È certo però che alcuni temi trattati da Mayer – come il tentavo di spiegare l’organico in rapporto ai mutamenti della materia (che costituisce l’argomento specifico del secondo saggio contenuto nel libro[17]) e, ancor più, l’opportunità di trarre conclusioni metafisiche «dai principii e dalle conseguenze materialistiche», esplicitamente dichiarata nell’Introduzione [18] – vanno in senso opposto alle intenzioni de La gaia scienza. La stessa impostazione metodologica proposta da Mayer – per cui «se un dato di fatto [Tatsache] è ben conosciuto in tutti i suoi aspetti, con ciò esso è anche spiegato e il compito della scienza è terminato»[19] –, riposa sull’autoevidenza di ciò che viene definito “dato di fatto” e su una teleologia che presuppone il convergere di esistenza e spiegazione: il che, certo, non poteva suonar bene all’orecchio di Nietzsche. Malgrado l’idea di un mondo che, sottratto al principio dell’ordine divino, si trova ridotto alla forma del caos, derivi a Nietzsche probabilmente proprio da Mayer[20], egli vede pur tuttavia celarsi in quella convergenza quell’assoluto bisogno del «buon Dio» che egli denuncia nella lettera a Köselitz. E, pertanto, quel «buon Dio» del quale si deve dire che è indecente [unanständig] che egli stia «in ogni luogo» – come Nietzsche afferma nella Prefazione alla seconda edizione de La gaia scienza [21] – non deve trovar posto neppure nella scienza.

18. Nel rifiuto di questo assoluto bisogno si raccoglie il senso di una “gaia scienza” il cui esito costituisce il programma di una concezione radicalmente scettica della conoscenza.

[1]«La logica psicologica – osserva Nietzsche – è la seguente»: il «senso della potenza [das Gefühl der Macht]» travolge improvvisamente l’uomo facendolo dubitare di sé: «egli non osa pensare se stesso come causa di questo sentimento meraviglioso – e così immagina, per questo caso, una persona più forte, una divinità», eKGWB/NF-1888,14[124].
[2]Michael Steven Green, Nietzsche and the Transcendental Tradition, University of Illinois Press, Urbana and Chicago 2002, p. 98.
[3]Volker Gerhardt, Friedrich Nietzsche, Beck, München 20064, p. 142.
[4]Ibidem.
[5]Si vedano, per esempio le considerazioni di Renate Müller-Buck, «Nichilismo e melanconia in Nietzsche», in Carlo Gentili, Volker Gerhardt, Aldo Venturelli (a cura di), Nietzsche. Illuminismo. Modernità, Olschki, Firenze 2003, pp. 209-223.
[6]Martin Heidegger, Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main, 19806, p. 212, tr. it. La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Sentieri interrotti, a cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 198.
[7]Questa tesi trova naturalmente una conferma più che plausibile nella ben nota circostanza che, nella stesura originaria dell’aforisma 125, l’uomo folle portava il nome di Zarathustra.
[8]Karl Löwith, Die Auslegung des Ungesagten in Nietzsches Wort «Gott ist tot», in Sämtliche Schriften, vol. 8: Heidegger. Denker in dürftiger Zeit, Metzler, Stuttgart 1984, pp. 213-215, tr. it. L’interpretazione di ciò che rimane taciuto nel detto di Nietzsche «Dio è morto», in Cesare Cases e Alessandro Mazzone (a cura di), Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 19742, pp. 107-109.
[9]L’espressione compare per la prima volta nella nota postuma 12[77] dell’autunno 1881, che anticipa i temi dell’aforisma 125 de La gaia scienza: «Dio è morto – chi l’ha ucciso? Anche il senso di aver ucciso il santissimo e l’onnipotente deve ancora nascere nei singoli – per ora è troppo presto! troppo debole! L’assassino degli assassinii! Ci risvegliamo come assassini! Come consolarsi? Come purificarsi? Un simile assassino non dovrà diventare egli sesso il più santo e potente dei poeti?», eKGWB/NF-1881,12[77].
[10]Sulla controfigura platonica di questo uso nietzschiano dell’immagine della caverna cfr. Hans Blumenberg, Höhlenausgänge, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1989, p. 632 sgg.
[11]Così nel manoscritto [cfr. Mp XV 2,26, cit. in OFN, V/II, p. 654 n. 344].
[12]Si vedano in proposito Curt Paul Janz, Friedrich Nietzsche. Biographie, vol. 2: Die zehn Jahre des freien Philosophen, Gutenberg, Frankfurt am Mein-Wien, 19942, pp. 73-74, tr. it. Vita di Nietzsche, a cura di Mario Carpitella, vol. 2: Il filosofo della solitudine 1879-1888, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 63-64, e Günter Abel, Nietzsche. Die Dynamik der Willen zur Macht und die ewige Wiederkehr, de Gruyter, Berlin-New York 1998, pp. 43-49.
[13]Tracce della lettura del libro di Mayer, con la citazione di alcuni passi, sono contenute in alcuni frammenti databili tra la primavera (evidentemente dopo la lettera del 16 aprile) e l’autunno del 1881. Cfr. eKGWB/NF-1881, 11[24,25,68 e 136]. In quest’ultimo frammento, per altro, Nietzsche riconosce a Mayer il merito di giungere «a risultati non comuni» ma non di possedere «una forza non comune».
[14]Sul confronto tra Mayer e Boscovich, appena accennato da Nietzsche, cfr. G. Abel, op. cit., pp. 85-86.
[15]Da sottolineare l’opinione di G. Abel (op. cit., p. 48) secondo il quale quest’idea deriverebbe a Nietzsche direttamente da Schopenhauer: «Poiché per Schopenhauer esiste un’unica volontà, così tanto la materia quanto l’energia naturale sono un’unica cosa, ed entrambe si conservano indipendentemente dal mutamento delle loro forme e dei loro stati».
[16]Cfr. Marco Brusotti, Leidenschaft der Erkenntnis. Philosophie und ästhetische Lebensgestaltung bei Nietzsche von Morgenröthe bis Also sprach Zarathustra, de Gruyter, Berlin-New York 1997, p. 361.
[17]Julius Robert von Mayer, Die Mechanik der Wärme, in Gesammelte Schriften, Cotta, Stuttgart, 1867, § 2, Die organische Bewegung in ihrem Zusammenhänge mit dem Stoffwechsel.
[18]Ivi, pp. V-VI.
[19]Ivi, p. 239.
[20]Secondo Abel (op. cit., p. 45-46) questa idea deriverebbe specificamente dalla lettura di Über Auslösung. Nella riflessione di Mayer, osserva Abel, «diviene evidente quanto ampie siano le conseguenze del considerare la causalità della Auslösung, e non quella della conservazione [Erhaltung], come principio dell’accadere. Con il regredire della capacità esplicativa della causalità conservativa viene meno anche la possibilità di attribuire al mondo un ordine che possa essere ricondotto a una ragione divina. Accogliendo la dottrina della Auslösung, Nietzsche definirà successivamente come “caos” il carattere complessivo del mondo. Con ciò è raggiunta la fine dell’idea di ordine e, contemporaneamente, è inaugurato un nuovo orizzonte».
[21]«“È vero che il buon Dio [der liebe Gott] è presente in ogni luogo?” chiese una bambina a sua madre: “ma io trovo che questo non sta bene [aber ich finde das unanständig, letteralmente: “ma io trovo questo indecente”]”», eKGWB/FW-Vorrede-4.